Oggi ho decisamente bisogno di coccole. Quanto vorrei che me le facesse 'lui'.
E invece, l'unico conforto che ho trovato è nel cibo.
Ho mangiato da fare schifo.
Non credo di riuscire a fare un elenco esatto della roba che ho ingurgitato, ma più o meno è andata così:
3 croissant
1 brioche
1 yogurt con cereali (diciamo più correttamente, una montagna di cereali condite con lo yogurt)
1 succo di pompelmo (tanto per stare leggeri)
Latte e biscotti (quantità imprecisata di Abbracci, tanto per riempire il vuoto affettivo)
1 piatto di pasta
Pane (quanto basta per calmare le mascelle)
Insalata
1 salsiccia (non trascuriamo l'apporto proteico)
1 caffè
E sto aspettando di andare a cena.
Dio, mi vergogno da sola!
Ma ho scoperto che sola non sono: Women's Health ha pubblicato un articolo di Giselle Wainwright in cui si fa luce sul fatto che sempre più persone usano il cibo come 'rimedio', e non nel senso sano del termine, badate bene. L'abbuffata emotiva è un meccanismo di conforto per tentare di gestire emozioni che ci fanno male. Mangiamo per placare, per coprire, per non affrontare. Solo che quando la sensazione di conforto passa, le emozioni tornano, a volte più grandi, più potenti e armate, questa volta, dal senso di colpa. Perchè cedo sempre a questo meccanismo? Perchè non sono come gli altri, che magari, di fronte allo stress hanno meno appetito o soffrono di insonnia? Beh, c'è una notizia che può servire almeno a mitigare questo subdola, autolesionista e scarsa considerazione di noi stessi: le persone che tendono ad abbuffarsi per gestire le emozioni negative sarebbero geneticamente programmate per farlo. Una ricerca condotta dalla York University in Canada ha osservato una corrispondenza tra comportamento alimentare distorto e presenza di geni che lo incoraggiano. Nel nostro corpo ci due geni coinvolti nell'apprezzamento del cibo: il gene DRD2, responsabile del rilascio di dopamina, e il gene OPRM1, che contribuisce alla creazione di dipendenze a livello cerebrale. In pratica i ricercatori rivelano che, tra le persone che hanno partecipato al progetto, quelle che tendono a consolarsi attraverso l'ingurgitamento di calorie hanno maggiori ricettori per il gene OPRM1.
Questo serve forse a mettere a tacere quella fastidiosa voce che ci fa sentire così male il giorno dopo, ma nel trovare una soluzione al problema ci aiuta molto poco.
Come dire: a me non importa molto sapere se sono geneticamente programmata per farlo; io ho la certezza di essere emotivamente programmata per farlo. Niente mi dà quella consolazione sicura, veloce e pronta al'uso come il cibo.
Non esiste una cura materiale, ma esiste la possibilità di rallentare le mascelle e fermarsi a pensare: quali sono miei triggers? Le situazioni che contribuiscono in modo ricorrente a gettarmi in questo stato d'ansia? I momenti della giornata (o, perchè no, del mese) in cui perdo il controllo più facilmente?
Una volta imbarcati su questo lavoro di autoanalisi bisognerebbe poi 'sostituire' il cibo come mezzo di procura di emozioni positive con altri mezzi, più innocui e salutari. Leggere, fare una passeggiata, passare più tempo con gli amici. Alcuni ci riescono. Io non sono tra questi. Ogni volta che mi riprometto di non usare più il cibo come cuscinetto emotivo (con la conseguente eliminazione dei cuscinetti adiposi) so che quella appena compiuta non sarà l'ultima abbuffata.
Ma c'è una cosa di cui sono sicura: che se riusciamo a fermarci abbastanza in tempo per identificare i nostri triggers, dovremmo anche porci la domanda fondamentale: quale emozione cercando di coprire?
Guardiamole in faccia le nostre paure e i nostri dolori. Se le nutriamo a forza di patatine e cioccolata torneranno ancora più corposi di prima.
Foto: Pexels, Pixabay
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